Dona con
HomeApprofondimentiPotere, controllo, disuguaglianza e democrazia nel XXI secolo

Potere, controllo, disuguaglianza e democrazia nel XXI secolo

By Jayati Ghosh
Fonte: Monthly Review

Questo è il testo di una conferenza in memoria di Robert Heilbroner, tenuta il 29 aprile 2025 da Jayati Ghosh alla New School for Social Research di New York City. Ghosh descrive come il capitalismo abbia inasprito le disuguaglianze non solo a causa delle forze di mercato, ma anche come risultato del modo in cui i paesi ricchi e le aziende che vi hanno sede hanno fatto pendere la bilancia a loro favore, privando il resto del mondo dei propri diritti. Questa disuguaglianza economica diffusa, conclude Ghosh, mina l’idea e la pratica della vera democrazia.

È un grande onore essere invitata a tenere una conferenza in memoria di Robert Heilbroner. Come per molti della mia generazione, il suo libro, The Worldly Philosophers, è stato uno dei primi approcci ai concetti economici e, da allora, la lettura delle sue numerose opere (sempre concise ed eleganti, ma anche profonde e incisive) è rimasta essenziale per la mia formazione e comprensione. Non posso certo dichiarare di potermi avvicinare a nulla di paragonabile alla sua ampia portata storica, alla sua ampiezza e alla sua grande profondità di analisi. Ma il suo esempio mi ha stimolato ad essere ambiziosa, anche solo per quanto riguarda le domande da porre, e posso solo sperare che il mio tentativo di fornire risposte offra qualche spunto marginale.

Le mie domande sono: qual è la natura del capitalismo che stiamo vivendo oggi e come si relaziona alla democrazia? Quanto di tutto ciò può essere ricondotto alle pure forze di mercato e come queste interagiscono con il potere?

In genere non è considerato efficace fornire subito le conclusioni, ma nonostante ciò, vorrei delineare a grandi linee la mia risposta fondamentale. Credo che il capitalismo si basi, e si sia sempre basato, sullo Stato. Tuttavia, esso è fondamentalmente antitetico alla democrazia, intesa in senso lato non solo come maggioritarismo elettorale, ma come capacità del popolo in generale di esprimersi liberamente e di avere voce in capitolo in tutte le decisioni che lo riguardano. Si tratta di un processo evolutivo in cui la logica stessa del capitalismo mina la democrazia. Quindi, la democrazia sostanziale può sopravvivere in modo significativo solo nella misura in cui riesce a controllare e regolamentare i processi capitalistici nell’interesse sociale più ampio.

Tale controllo e regolamentazione ora sono diventati molto più difficili, perché la combinazione del potere monopolistico con le azioni e il controllo statali genera sempre più ingenti rendite economiche per un piccolo ma privilegiato e potente settore del grande capitale. Di conseguenza, il capitalismo si è trasformato in una forma in cui la spinta all’appropriazione dei rendimenti economici prevale sulla ricerca del profitto in sé, che è stata generalmente considerata la forza trainante del capitalismo. Questo processo ha molte espressioni e implicazioni, che cercherò di approfondire in questa lezione. Esso porta ad una crescente disuguaglianza, alla stagnazione degli investimenti e dell’innovazione, a una crescita lenta e all’erosione dei diritti democratici, con la conseguente polarizzazione sociale.

Questo punto di vista riconosce che i processi legali e normativi degli Stati sono assolutamente centrali per lo sviluppo e il dispiegamento del capitalismo, che non riguarda e non ha mai riguardato solo i “liberi mercati”. Piuttosto, come ha sostenuto Katharina Pistor, è essenzialmente attraverso i codici legislativi che il capitalismo è nato e si è sviluppato nel tempo in luoghi diversi e a livello internazionale, man mano che questi codici sono cambiati.[1] Ai nostri giorni, ciò significa che è sbagliato considerare il neoliberismo come una “ritirata dello Stato” dall’attività economica; anzi, il ruolo dello Stato rimane determinante, proprio come lo è stato in ogni fase storica del capitalismo. Quindi, mentre il capitale – e di conseguenza il capitalismo – è sempre esistito grazie allo Stato, vi sono state diverse fasi di questa interazione: dal capitale privato, reso possibile dallo Stato fin dal suo inizio; allo Stato che diventa responsabile del consolidamento dei profitti, nella fase di monopolio; fino alla conquista dello Stato [da parte del capitale] nell’Era della finanza.

Consideriamo le caratteristiche distintive del capitalismo. È generalmente riconosciuto come un sistema economico basato sui mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, in cui i lavoratori, in genere, non possiedono i mezzi di produzione e l’attività economica è guidata dal profitto dei proprietari del capitale. La mercificazione, la commercializzazione e l’orientamento al profitto sono considerati le caratteristiche fondamentali. Come sottolineato da Heilbroner, esattamente quarant’anni fa, l’elemento più importante del capitalismo è «la necessità impellente di estrarre ricchezza dalle attività produttive della società, sotto forma di capitale». L’estrazione di surplus di per sé non è ovviamente specifica del capitalismo; piuttosto, ciò che è specifico è «l’uso della ricchezza, in varie forme concrete, non come fine a se stesso, ma come mezzo per accumulare ulteriore ricchezza».[2] Il capitale non è una cosa materiale, ma un processo di accumulazione che utilizza le cose materiali come momenti della sua esistenza in continua dinamica.

Tuttavia, nulla di tutto ciò sarebbe possibile senza la possibilità di attribuire la ricchezza a determinati proprietari attraverso il riconoscimento e l’applicazione della proprietà privata: il diritto di rivendicare la proprietà dei beni, di scambiarli o venderli, conservando i proventi di tali transazioni. Questo, ovviamente, dipende in modo determinante dallo Stato. Quindi, il capitalismo non può esistere senza lo Stato, fin dalle sue origini e durante tutta la sua evoluzione. Pertanto, lo Stato è onnipresente, non solo nei codici legislativi, ma anche nell’intero quadro normativo, nei regolamenti, nelle istituzioni e nei meccanismi per il riconoscimento e l’applicazione della proprietà privata.

Ma lo Stato può fare, e fa, molto di più che limitarsi a fornire i presupposti per il funzionamento delle economie di mercato capitalistiche. Può stabilire i termini e le condizioni di produzione, scambio, redditività e accumulazione in tutte le attività, così come per il lavoro umano quando viene scambiato. Può creare nuove merci da scambiare e da cui trarre profitto, che non devono essere necessariamente materiali, ma esistono come “crediti finanziari” di vario tipo, o “proprietà intellettuale” o “cyberspazio”. Modificando i termini di estrazione e di scambio, nonché definendo nuove forme di proprietà, è possibile arricchire ancora di più coloro che detengono la ricchezza.

Molti analisti, da Karl Marx allo stesso Heilbroner, hanno osservato che esiste una tendenza intrinseca verso una maggiore concentrazione e centralizzazione all’interno e tra i mercati capitalistici, e che ciò, a sua volta, introduce altri aspetti del rapporto tra capitale e Stato. I processi di accumulazione e concentrazione implicano che «il capitale, che nasce all’interno dello Stato e che originariamente esiste solo per volontà dello Stato, diventa sempre più capace di sfidare o di esistere ‘al di sopra’ dello Stato».[3] La mia attenzione qui non è necessariamente rivolta all’internazionalizzazione del capitale, che ovviamente è una modalità centrale di questo processo di esistenza al di sopra dello Stato, ma sulla capacità del grande capitale di influenzare le azioni dello Stato e di influenzare e determinare le leggi e i regolamenti che contribuiscono alla sua espansione. La ricchezza porta potere, in particolare potere sulle decisioni degli Stati, e questa commistione tra potere economico e potere normativo è stata il catalizzatore del rent-mutated capitalism* che oggi sperimentiamo.

L’importanza della regolamentazione delle economie capitaliste è stata ampiamente discussa dalla “Scuola della Regolazione” francese.[4] Questo approccio va oltre il ruolo dei governi nella regolazione e riguarda piuttosto l’insieme dei quadri istituzionali che stabilizzano e gestiscono le economie capitaliste, considerandole essenzialmente come una funzione dei sistemi sociali e istituzionali. Questo a sua volta riconosce diversi “regimi di accumulazione” che emergono come risultato di varie modalità di regolazione. Ciò è perfettamente compatibile con l’idea che presento qui, ma l’ulteriore attenzione alle rendite potrebbe significare che non è solo il regime di accumulazione ad essere cambiato, ma la forma stessa del capitalismo.

Vale la pena di specificare come utilizzo il concetto di rendita economica. Questo si basa sul concetto marxiano di rendita fondiaria assoluta, che è essenzialmente correlato alla proprietà fondiaria utilizzata per l’agricoltura, ma può essere esteso ad altre forme di proprietà.[5] Marx si discostava dalla formulazione ricardiana della rendita fondiaria differenziale, che si basava sull’idea di diverse condizioni di produzione in agricoltura. Per David Ricardo, le rendite derivano dai rendimenti decrescenti del capitale e del lavoro derivanti dalla coltivazione e dalla scarsità dei terreni di migliore qualità rispetto alla domanda sociale. La necessità di coltivare terreni di qualità inferiore crea una rendita differenziale estensiva, mentre la rendita differenziale intensiva deriva dalla coltivazione più intensiva di un dato appezzamento di terreno che produce rendimenti decrescenti (cioè, rendimenti inferiori a quelli proporzionali alle dosi di capitale e lavoro). In entrambi i casi, le rendite sulle varie unità di terreno e di capitale si basano sulle differenze tra il costo di produzione di queste unità e quello dell’unità meno produttiva (marginale).Quindi, in questa concezione, la scarsità è il principio determinante per la nascita delle rendite.

Al contrario, Marx sottolineava l’esistenza di un’altra forma di rendita basata non sulla scarsità, ma sul monopolio della proprietà terriera – in altre parole, sui diritti di proprietà privata che consentono un’ulteriore estrazione di surplus. Sebbene il concetto di rendita assoluta incontri alcune difficoltà nel contesto agricolo, l’idea che il monopolio della proprietà di alcune forme di beni consenta un’estrazione superiore a quella determinata dalla scarsità di per sé è molto forte e può essere utilmente applicata al nostro contesto attuale. Nei mercati, il controllo monopolistico o oligopolistico si esprime tipicamente sotto forma di barriere all’ingresso. È necessario ampliare ulteriormente i confini di questo concetto di rendita economica per riconoscere che essa può emergere non solo dalla proprietà monopolistica, ma anche dal potere: non solo dal potere di mercato, ma dalla capacità di influenzare e alterare le istituzioni e le azioni dello Stato.

Questo concetto di rendita va oltre l’idea di “profitti eccessivi”. Esso comprende, ma va ben oltre, l’idea di “capitalismo rentier”**, che si basa in gran parte sul dare priorità ai rendimenti finanziari e sulla spinta ad aumentarli. Anche l’idea di “comportamento di ricerca della rendita”, che descrive gli investimenti privati ​​finalizzati non ad aumentare la capacità produttiva ma ad influenzare il processo decisionale dello Stato, è allo stesso modo sussunta in questo concetto. Questo nuovo capitalismo mutante basato sulla rendita è più vicino per certi aspetti all’idea di tecnofeudalesimo descritta da Yanis Varoufakis, il quale sostiene che i proprietari delle Big Tech sono ormai di fatto dei signori feudali, che sostituiscono il capitalismo globale con un nuovo sistema che non solo domina i mercati e i “dati”, ma controlla e schiavizza le nostre menti, distrugge la democrazia e riscrive le regole del potere globale.[6] A mio avviso, il nuovo capitalismo mutante basato sulla rendita va oltre l’ambito delle rendite e del controllo basati sul digitale, poiché comprende altre attività economiche e si basa sui vari modi in cui leggi, norme, regolamenti e politiche statali operano per generare profitti eccessivi (o rendite) non solo per il capitale digitale ma anche per un’ampia gamma di attività economiche.

Andamento dei profitti nei grandi capitali

Che il mondo sia sempre più diseguale, in termini di redditi, ricchezza e accesso a risorse e servizi, è un dato che non occorre ribadire. La riduzione della quota dei salari sul reddito nazionale complessivo in quasi tutte le economie capitaliste è stata ampiamente individuata e documentata. I lavori di Engelbert Stockhammer, Thomas Piketty e altri,,[7] lo hanno dimostrato con chiarezza nell’arco dell’ultimo mezzo secolo, e sono stati confermati ulteriormente dai dati del FMI riportati nel Grafico 1.

Grafico 1. Percentuale della quota di lavoro nel reddito nazionale

Fonte: Fondo monetario internazionale, World Economic Outlook 2017 (Washington DC: FMI, aprile 2017).

Ma se il calo della quota del lavoro è ormai ben noto, ciò che può sorprendere ancora di più non è solo l’ampliarsi delle disuguaglianze tra paesi – e tra capitale e lavoro all’interno dei paesi – ma anche all’interno della stessa classe capitalista. Tale disuguaglianza sussiste tanto tra capitali di paesi diversi quanto all’interno degli stessi paesi. A livello regionale, le imprese statunitensi detengono la quota dominante dei profitti globali. Su scala mondiale, le grandissime multinazionali fanno la parte del leone in tutti i profitti aziendali, e questa concentrazione è evidente persino tra le quattromila maggiori società del pianeta. Inoltre, i profitti delle imprese statunitensi sono esplosi dal 2000 in poi, nonostante le crisi periodiche, mentre le aziende di altri paesi e regioni hanno registrato risultati meno brillanti in termini di redditività.

Il Grafico 2 mostra i profitti complessivi di tutte le società negli Stati Uniti. L’aumento della redditività è stato particolarmente marcato tra le imprese non finanziarie, mentre i profitti totali delle imprese finanziarie hanno oscillato in misura maggiore e non sono cresciuti altrettanto. Tra le imprese non finanziarie, nel periodo più recente (2022–2024), il Grafico 3 evidenzia come la maggior parte dei profitti provenga da manifattura e commercio, sia all’ingrosso che al dettaglio. (Va notato che nel caso del commercio, poiché molte grandi aziende operano sia all’ingrosso che al dettaglio, è spesso difficile distinguerli). Insieme, questi due settori hanno rappresentato metà dei profitti complessivi delle imprese statunitensi. Secondo McKinsey Quarterly, «i settori tecnologico e dei media hanno rappresentato solo circa il 39 percento (79 miliardi di dollari) dell’aumento dell’utile economico del Nord America [nel periodo 2015–2019 rispetto al 2005–2009]. I settori industriale avanzato (52 miliardi), farmaceutico e della tecnologia medica (26 miliardi), areonautico e relativo ai viaggi (22 miliardi) e dei beni di consumo (15 miliardi) hanno contribuito fortemente alla crescita. Le telecomunicazioni sono state l’unico grande settore del Nord America in cui l’utile economico è diminuito (–5 miliardi)».[8]

Grafico 2. Utili delle società statunitensi (in miliardi)

Fonte: U.S. Bureau of Economic Analysis, “Corporate Profits by Industry,“ 27 marzo 2025, Tabella 6.16D.

Grafico 3. Utili medi delle società non finanziarie statunitensi, 2022-2024 (in miliardi)

Fonte: U.S. Bureau of Economic Analysis, “Corporate Profits by Industry,“ 27 marzo 2025, Tabella 6.16D.

Un altro studio sulle prime quattromila multinazionali globali fornisce risultati ancora più netti (vedi Tabella 1).[9] All’interno di questo gruppo, le aziende statunitensi non solo hanno dominato per quanto riguarda i profitti, ma hanno anche aumentato significativamente la loro quota sul totale nell’arco del decennio 2005–2009 / 2015–2019. I profitti delle aziende USA sono quasi raddoppiati, raggiungendo i 417 miliardi, mentre la loro quota sul totale è passata dal 50 al 77%. Nelle altre aree, sono diminuiti sia i profitti assoluti che le quote di profitto: la quota delle aziende europee è scesa dal 34 al 21%, mentre per il resto del mondo dal 17 al solo 2%. Guardando esclusivamente ai profitti, le grandi aziende statunitensi hanno guadagnato oltre 3,5 volte i profitti delle loro controparti europee tra il 2015 e il 2019, e trenta volte quelli delle grandi aziende del resto del mondo.

Tabella 1. Profitti delle prime 4.000 aziende globali (in miliardi)

Note e Fonte: Le cifre tra parentesi indicano le percentuali dei profitti totali delle 4.000 aziende considerate complessivamente. L’elenco esclude le società bancarie, assicurative e immobiliari. Marc de Jong, Tido Röder, Peter Stumpner e Ilya Zaznov, Working Hard for the Money: The Crunch on Global Economic Profit” (Lavorare sodo per guadagnare: la crisi dei profitti economici globali), McKinsey Quarterly, 21.04.2023.

David Autor e i suoi colleghi propongono un modello di “imprese superstar”, secondo cui i settori sono sempre più caratterizzati da una competizione «il vincitore si accaparra quasi tutto», per cui un piccolo numero di aziende molto redditizie conquista quote di mercato crescenti, riflettendo una concentrazione sempre maggiore delle vendite all’interno dei settori.[10] (Non a caso, queste imprese tendono anche ad avere quote del lavoro più basse, tanto che i settori con maggior concentrazione mostrano cali più ampi delle quote salariali sul valore aggiunto.)

La capacità delle aziende più grandi di accumulare maggiori profitti va ben oltre l’aumento dei ricavi e delle quote di mercato. Infatti, le prime cinquecento aziende sulle quattromila considerate in questo studio hanno ridotto la loro quota di ricavi dal 61 al 60% nel decennio pre-COVID (2005–2009 / 2015–2019). Tuttavia, la loro quota di profitti è aumentata dall’82 ad un clamoroso 97%. La quota di profitti delle prime cento aziende è cresciuta dal 46 al 49%, mentre la loro quota di ricavi è scesa leggermente attorno al 30%. Chiaramente, questo aumento dei profitti delle grandi aziende rappresenta più di una semplice crescita delle vendite, e le implicazioni della concentrazione vanno ben oltre il solo potere di mercato.

Vale la pena notare che le grandi aziende cinesi – riconosciute come il principale motore della crescita delle vendite e della produttività nel loro paese, così come nell’economia mondiale in questo periodo – rappresentavano solo una piccola quota pari al 2% dei profitti globali delle grandi società, anche se le aziende cinesi hanno contribuito in modo determinante all’aumento degli investimenti globali in questo periodo. Questa mancanza di correlazione tra redditività e dinamismo produttivo merita di essere approfondita.

Investimenti e crescita nelle principali economie

La crescita del PIL non è certo un indicatore adeguato o realistico del progresso umano, né tantomeno del progresso puramente materiale. Tuttavia è necessariamente l’obiettivo del capitalismo, la cui raison d’être è proprio l’espansione crescente dell’attività economica commercializzata e quindi dei profitti. «Accumulare, accumulare! Questi sono Mosè e i profeti!», come scriveva, con parole celebri, Marx nel primo libro del Capitale, vedendo in ciò la forza motrice del capitalismo in generale. È dunque rilevante notare che, negli ultimi cinquant’anni, la crescita globale del PIL è stata per lo più in rallentamento (vedi Grafico 4). Ben prima della pandemia di COVID-19, il capitalismo globale non era in buona salute, con una crescita in calo, investimenti rallentati e minore dinamismo complessivo. Nel decennio successivo alla crisi finanziaria globale, sono servite massicce iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali delle economie avanzate solo per mantenere il sistema a galla. Ulteriori misure di sostegno, sia in termini monetari che fiscali, sono state ampiamente utilizzate nelle principali economie avanzate durante la pandemia di COVID-19, continuando anche nei primi anni della guerra in Ucraina.

Grafico 4. PIL globale (in miliardi)

Fonte: World Bank, World Development Indicators.

Nei sistemi capitalistici, i profitti aziendali sono motivati dal supposto incentivo ad investire che essi creano, e dalla concreta capacità delle imprese più redditizie di effettuare maggiori investimenti. Ciò porterebbe naturalmente ad aspettarsi che le grandi imprese statunitensi, che hanno conquistato la quota maggiore dei profitti globali, siano le leader negli investimenti produttivi. I tassi di investimento negli Stati Uniti dovrebbero quindi essere più elevati o crescere più rapidamente rispetto a quelli di regioni a minore redditività.

I Grafici 5 e 6 smentiscono rapidamente queste idee. I tassi di investimento nei paesi ad alto reddito (o “economie avanzate”, come amano definirsi) sono mediamente in calo da almeno tre decenni, e nell’ultimo decennio sono rimasti stagnanti su bassi livelli. Al contrario, i tassi di investimento nei paesi a basso e medio reddito sono aumentati rapidamente soprattutto nell’ultimo quarto di secolo, tanto che oggi sono mediamente circa una volta e mezza quelli dei paesi ricchi.

Grafico 5. Tassi di investimento per fascia di reddito (percentuale del PIL)

Fonte: International Monetary Fund, World Economic Outlook Database, April 2025.

Grafico 6. Tassi di investimento negli Stati Uniti e in Cina (percentuale del PIL)

Fonte: International Monetary Fund, World Economic Outlook Database, April 2025.

Non è un segreto che tale differenza sia dovuta in gran parte al peso molto rilevante della Cina, piuttosto che ad altri paesi in via di sviluppo. Il Grafico 6 mostra senza ambiguità le fortissime differenze di dinamismo degli investimenti tra Stati Uniti e Cina. Anche se i tassi di investimento cinesi sono scesi rispetto agli incredibili livelli del 45–48% del PIL registrati a metà anni 2000, restano comunque sopra il 40% del PIL, circa il doppio dei tassi statunitensi.

È vero che gli investimenti pubblici rappresentano una quota maggiore in Cina rispetto agli Stati Uniti. Tuttavia, non è tanto l’investimento pubblico in sé, quanto la capacità dello Stato cinese di dirigere e controllare l’investimento privato che rende l’economia di quel paese in larga misura: “guidata dallo Stato”. Chiaramente, gli alti profitti negli Stati Uniti non si sono tradotti in maggiori investimenti o in un’innovazione più rapida, mentre i profitti molto più bassi delle imprese cinesi, dove il sistema è più controllato dallo Stato, sono associati a entrambi questi risultati. Tuttavia, come già suggerito e come argomenterò più avanti, a costituire il tratto distintivo delle diverse forme di capitalismo non sono semplicemente la volontà e la capacità dello Stato di plasmare i mercati – poiché gli Stati lo fanno in tutte le economie – ma gli interessi in nome dei quali tali mercati vengono modellati.

Che cosa spiega questa mancanza di dinamismo degli investimenti privati nel loro complesso, nonostante i profondi cambiamenti degli ultimi decenni, pensati specificamente per promuovere l’attività economica privata dei grandi capitali? Come ha sostenuto Wolfgang Streeck, il capitalismo ha avuto probabilmente “troppo successo” per il suo stesso bene, in una classica sindrome predatore-preda.[11] Il neoliberismo ha distrutto o indebolito tutte le forme di controllo, gli equilibri e i limiti al potere illimitato del capitale: il potere normativo degli Stati è stato utilizzato a favore dei grandi capitali globali piuttosto che nell’interesse dei diritti delle persone o i bisogni della natura e del pianeta; il potere di mobilitazione e associazione dei lavoratori è stato minato sia tramite cambiamenti legislativi e normativi, sia attraverso la riduzione della capacità istituzionale; le misure di welfare e le politiche sociali in grado di proteggere i più vulnerabili dagli shock e dalle crisi sono state in gran parte sottofinanziate e ridotte. Il ruolo sempre più dominante della finanza privata e dei mercati finanziari, un processo reso possibile anche da politiche statali, ha creato fragilità, volatilità, predisposizione alle crisi e crescente insicurezza nella vita quotidiana. Questi cambiamenti sono avvenuti sia a livello di pre-distribuzione sia di ri-distribuzione. Il sottoconsumo e la mancanza di domanda effettiva sono stati gli esiti inevitabili di disuguaglianze crescenti nel reddito e nella ricchezza, e della caduta delle quote salariali sul reddito nazionale nella maggior parte dei paesi.

Come si generano le rendite?

Vorrei mettere a confronto queste diverse tendenze: stagnazione capitalistica globale o riduzione del dinamismo; calo dei tassi di investimento nelle economie che registrano i profitti più elevati a favore del grande capitale; aumento significativo della concentrazione all’interno e tra i settori industriali; diminuzione della quota salariale del reddito nazionale; aumento della disuguaglianza tra i paesi e all’interno degli stessi, nonché tra le diverse categorie di capitale e lavoro.

Dean Baker ha sostenuto che la maggior parte della ri-distribuzione verso l’alto negli Stati Uniti deriva dalla crescita dei redditi nell’economia in quattro aree principali: la protezione dei brevetti e dei diritti d’autore, l’espansione del settore finanziario, la retribuzione degli amministratori delegati e di altri alti dirigenti e le misure protezionistiche che hanno aumentato la retribuzione dei medici e di altri professionisti altamente qualificati.[12] Piketty sostiene che nel capitalismo esiste una tendenza di fondo per cui il tasso di rendimento del capitale supera il tasso di crescita del reddito aggregato (la famosa formula “r > g”) – in sostanza, l’accumulo di capitale attraverso gli investimenti porta alla crescita del reddito da capitale, perché l’aumento della quantità di capitale sociale non è completamente compensato dal calo dei rendimenti per unità di capitale.[13] Una visione contraria è presentata da Matthew Rognlie, il quale sostiene che l’aumento a lungo termine della quota netta di reddito del capitale nei grandi paesi sviluppati è consistito interamente nei rendimenti immobiliari, il che a sua volta rimanda alla scarsità.[14]

Il mio centro d’interesse qui è sulle rendite che sono direttamente o indirettamente rese possibili dalle politiche statali, dalla regolamentazione o dall’intervento diretto. Naturalmente, si potrebbe sostenere che questo vale inevitabilmente per tutte le rendite, poiché la capacità di appropriarsi delle rendite è il risultato del riconoscimento della proprietà privata, che è di competenza dello Stato. Ma esistono anche rendite create specificamente dallo Stato attraverso vari mezzi istituzionali, legali e normativi. Esse possono manifestarsi sotto forma di scarsità (ad esempio nel settore immobiliare, se gli alloggi di edilizia pubblica sono insufficienti e/o le normative riducono altri investimenti immobiliari più accessibili). Ma essenzialmente sono il risultato di interventi legali e normativi che consentono l’acquisizione privata di surplus. La preoccupazione per il potere di mercato non è nuova alla disciplina economica, nemmeno nella sua versione mainstream. Nel 2014, il Premio della Banca Centrale Svedese in memoria di Alfred Nobel è stato assegnato a Jean Tirole «per la sua analisi del potere di mercato e della regolamentazione» e per il suo ruolo nell’affrontare le preoccupazioni che i mercati altamente concentrati, se «lasciati senza regolamentazione… spesso producono risultati socialmente indesiderabili: prezzi più alti di quelli motivati dai costi, o aziende improduttive che sopravvivono bloccando l’ingresso di nuove aziende più produttive». Il lavoro di Tirole verteva sulle forme di regolamentazione che potrebbero contribuire a ridurre l’eccessivo potere di mercato, ma ciò che ha caratterizzato gli ultimi decenni è piuttosto il contrario: politiche e normative che hanno attivamente favorito una maggiore concentrazione e un maggiore potere di mercato.

Diversi studi hanno sottolineato l’aumento della concentrazione negli Stati Uniti, in tutti i paesi ricchi e persino nell’economia globale nel suo complesso, misurato in termini di quote di fatturato o capitalizzazione di mercato.[15] È stato inoltre osservato, con specifico riferimento agli Stati Uniti, come i dati raccolti dal 2000 indicano «una concentrazione inefficiente, la diminuzione della concorrenza e l’aumento delle barriere all’ingresso, poiché le aziende leader si consolidano e la concentrazione si associa a minori investimenti, prezzi più elevati e minore crescita della produttività».[16]

Tuttavia, non è la concentrazione in termini di ricavi o attività, ma piuttosto la concentrazione dei profitti e la maggiore redditività delle aziende più grandi – che, come ho sostenuto è rappresentata principalmente dalle rendite – che forse merita un’attenzione ancora maggiore. Uno studio del 2017 della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo lo evidenzia molto chiaramente, identificando non solo i profitti, ma anche quelli che gli autori descrivono come “profitti in eccesso”, ovvero il divario tra i profitti effettivamente osservati e i profitti di riferimento. Il profitto di riferimento è considerato il valore mediano del tasso di rendimento delle attività delle imprese o il rapporto tra gli utili operativi e il totale delle attività (a seconda del settore). Un divario positivo tra i profitti effettivi e quelli di riferimento suggerisce che alcune imprese sono in grado di ottenere profitti in eccesso e, se il divario cresce nel tempo, «fornisce un’indicazione delle forze all’opera che possono facilitare la trasformazione dei profitti in eccesso temporanei in rendite».[17]

Il grafico 7, che mostra i risultati di tale studio, indica che tale processo di trasformazione dei profitti temporanei in rendite è effettivamente in atto. Nell’ultimo periodo considerato dallo studio, ovvero il 2009-2015, il 40% degli utili delle prime cento aziende presenti nel database era costituito da “eccedenze”, ovvero da utili significativamente superiori agli utili di riferimento. Il graduale aumento di tali dati suggerisce che si trattasse già di rendite piuttosto che di utili temporanei in eccesso.

Grafico 7. Quota dei profitti in eccesso (in percentuale degli utili totali)

Fonti: Calcoli del Segretariato della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo basati sul database dei bilanci consolidati, derivati dal database Thomson Reuters Worldscope. UNCTAD, Market Power and Inequality: The Revenge of the Rentiers [Potere di mercato e disuguaglianza: la rivincita dei rentier], UNCTAD Trade and Development Report 2017, Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, Ginevra, 2017), capitolo 6, tabella 6.1.

Alcuni hanno sostenuto che l’aumento delle rendite sia in gran parte il risultato di forze tecnologiche che consentono la concentrazione all’interno dei settori. È certamente vero che per alcune industrie le economie di scala tecnologiche e le esternalità di rete costituiscono potenti barriere all’ingresso. Tuttavia, esistono anche barriere istituzionali all’ingresso, forse ancora più significative, che sono il risultato dell’azione dello Stato e del suo funzionamento in contesti particolari, nonché della capacità di estendere tali barriere a livello globale attraverso vari accordi commerciali e altri accordi internazionali. Queste non sono semplicemente il risultato delle forze di mercato, ma costituiscono rendite rese possibili da modifiche legislative e dalla regulatory capture*** in vari modi. Questi includono cambiamenti nei regimi di proprietà intellettuale a livello nazionale e globale; la relativa creazione di nuove forme di “proprietà”, che includono non solo la conoscenza, ma anche il cyberspazio e ciò che un tempo era considerato un servizio pubblico; la presunta “deregolamentazione” degli investimenti che in realtà ha comportato una maggiore libertà per il capitale di operare senza vari vincoli; l’indebolimento della legislazione antimonopolistica in molti paesi; e la rimozione di protezioni come quelle per il lavoro o l’ambiente.

Ci sono molti esempi possibili di come ciò si manifesti. Qui mi limiterò a tre grandi aree di esperienza recente: diritti di proprietà intellettuale, finanza e fiscalità. Non tratterò la sfera del cyberspazio, delle tecnologie digitali e dei dati, che sono già stati discussi in modo così competente da Varoufakis e altri.

La rapidità, l’intensità e la diffusione della privatizzazione e della commercializzazione della conoscenza che si sono verificate attraverso l’universalizzazione dei diritti di proprietà intellettuale, sono davvero notevoli. In appena tre decenni, l’accettazione di tali diritti di proprietà, letteralmente creati dal nulla, si è consolidata al punto da sembrare quasi un dato di fatto. Ciò ha molte conseguenze negative, non da ultimo per la generazione di conoscenza futura e lo sviluppo tecnologico. Le implicazioni negative per l’accesso ai farmaci e ai prodotti farmaceutici, compresi i trattamenti preventivi e terapeutici salvavita, sono ben note, soprattutto dopo l’esperienza globale vissuta durante la recente pandemia. Anche i vincoli che tali monopoli della conoscenza pongono alle necessarie risposte globali alla sfida climatica, sia in termini di mitigazione che di adattamento, sono sempre più riconosciuti. A questo scopo, l’universalizzazione dei diritti di proprietà intellettuale è rilevante, perché ha consentito di ottenere sostanziali rendite economiche attraverso i monopoli che crea.

Le norme statunitensi in materia di protezione della proprietà intellettuale, che erano già tra le più severe al mondo, sono state ulteriormente inasprite e ampliate nel recente passato. Queste sono state poi esportate nella maggior parte del mondo attraverso accordi commerciali, come ad esempio l’accordo TRIPS dell’Organizzazione mondiale del commercio e, successivamente, attraverso altri accordi commerciali e di investimento plurilaterali e bilaterali che hanno previsto protezioni sempre più forti. Di conseguenza, la capacità di controllare la conoscenza a fini di lucro privato ha comportato un aumento sostanziale del potere di monopolio, con la conseguente capacità di influenzare i margini di profitto e i prezzi. In effetti, l’emergere del capitalismo rentier delle società non finanziarie è emerso come una delle caratteristiche salienti dei decenni neoliberisti, come dimostrano alcuni dati sulla “redditività eccedentaria” delle grandi imprese. Non sorprende che le grandi aziende farmaceutiche e quelle che operano nel settore dei big data, entrambe fortemente dipendenti dall’appropriazione e dal controllo privato della conoscenza, siano tra le aziende che registrano i tassi più elevati di “profitti eccedentari”.

Il capitalismo finanziario è considerato la forma originaria del capitalismo rentier, poiché si basa sulla realizzazione di profitti attraverso attività quali il prestito a interesse, la compravendita di azioni, obbligazioni e derivati. Ovviamente, nella misura in cui tali attività sono rese più agevoli dai cambiamenti nella prassi normativa, esse possono diventare più redditizie. Nel contesto contemporaneo, l’esempio più lampante è quello delle criptovalute, dove l’allentamento delle restrizioni su quello che è essenzialmente un bene fittizio – il cui unico valore reale è quello della segretezza – crea opportunità di enormi guadagni in conto capitale [plusvalenze] per alcuni attori, mentre molti altri rischiano di essere travolti e impoveriti dalla volatilità (e dal probabile crollo finale) di quel mercato. In ogni caso, nel mondo della finanza, la capacità di ricavare rendite assume molte forme diverse. La commercializzazione e la privatizzazione di molte attività che in precedenza coinvolgevano un numero minore di intermediari, o erano fornite direttamente dallo Stato, ha spesso costretto i consumatori a contrarre prestiti. Il passaggio – imposto – dei pagamenti delle pensioni a intermediari orientati al mercato comporta dei rischi, i cui costi sono sostenuti dai lavoratori e dai pensionati. Tutto ciò consente ai nuovi intermediari finanziari – creditori e compagnie assicurative – di trarre vantaggio da questi passaggi attraverso un’ulteriore estrazione [di profitto], resa possibile ancora una volta solo grazie all’intervento dello Stato.

Allo stesso modo, varie strategie di deregolamentazione finanziaria (sia nazionale che transfrontaliere) hanno consentito ad alcune grandi società di ricavare extra profitti (rendite) in determinati periodi, in quanto i grandi operatori finanziari sono in grado di trarre vantaggio dalla volatilità – che in molti casi essi stessi generano o amplificano – dei mercati. Un esempio lampante è l’attività finanziaria nei mercati dei futures su prodotti alimentari e carburanti, che in due periodi recenti (2007-2009 e 2022-2023) ha causato enormi oscillazioni dei prezzi globali senza alcuna giustificazione in termini di variazioni della domanda o dell’offerta globale reale.[18]

La questione della tassazione è più complessa, perché non riguarda la pre-distribuzione, ovvero il modo in cui le rendite vengono generate, ma la ri-distribuzione (o la sua mancanza) attraverso la politica fiscale. Tuttavia, è comunque importante, perché ci aiuta a comprendere come le rendite, ingenti e in crescita, vengono tassate anche se in maniera meno pesante di altre forme di reddito. Gli odierni sistemi fiscali nazionali si inseriscono in un’architettura fiscale internazionale sviluppata più di un secolo fa, quando i paradisi fiscali e le multinazionali potevano essere ignorati ai fini fiscali. Il trattamento fiscale per le attività di mercato delle filiali delle multinazionali come società separate, ha consentito l’applicazione di prezzi di trasferimento e altre misure che potevano, senza penalizzazioni, spostare i profitti verso giurisdizioni fiscali più vantaggiose, a bassa o nessuna fiscalità, riducendo drasticamente la capacità degli Stati di tassare i profitti delle multinazionali. Ancora una volta, sebbene ciò appaia come una limitazione alla politica di finanza pubblica, è il risultato di decisioni e scelte fatte dagli Stati, e rientra quindi ampiamente nel quadro di sistemi normativi che consentono l’arricchimento privato.

In particolare nelle principali economie capitaliste, ma anche altrove, i governi hanno ceduto poteri fondamentali al capitale finanziario e hanno cercato, a spese dei contribuenti di rendere il suo accumulo “privo di rischi”, e di delocalizzare la produzione per facilitare le operazioni finanziarie e di altro tipo del grande capitale.

Impatto sulla disuguaglianza, sulla società e sulla democrazia

È facile comprendere come i processi che ho descritto in precedenza portino inevitabilmente a una grande disuguaglianza, sia tra diversi paesi, ma, cosa ancora più importante, all’interno dei singoli paesi. I paesi e le regioni più ricche e con maggiore potere politico guadagnano a spese di quelle più povere; il capitale guadagna a spese dei lavoratori; e all’interno della classe capitalista, i grandi attori guadagnano a spese di quelli più piccoli. Il potere economico genera potere politico, che a sua volta consente un potere economico ancora maggiore. Anche se non siamo ancora completamente i servi della gleba dei signori tecnofeudali, i cittadini sono sempre più in balia di questo nesso infernale tra ricchi e poteri politici.

Questo ovviamente mina la giustizia economica e il raggiungimento dei diritti sociali ed economici fondamentali da parte delle persone. Oltre a ciò, l’assenza di una democrazia economica sostanziale tende a minare la fiducia nella democrazia politica, favorisce la polarizzazione e contribuisce a molti degli esiti politici estremi che oggi osserviamo. La triste verità è che le scelte economiche degli ultimi decenni, anche quelle fatte da chi si professa progressista, hanno contribuito al diffuso cinismo dell’opinione pubblica nei confronti delle loro posizioni e della loro efficacia. I risultati, con la comparsa di “uomini forti” apparentemente nazionalisti, spesso nativisti [che proteggono gli interessi degli abitanti nativi contro quelli degli immigrati, compreso il sostegno a misure anti-immigrazione e di restrizione dell’immigrazione], che professano di voler scuotere il sistema ma che lo fanno in modi che rafforzano ulteriormente il rent-mutated capitalism e il potere dei maggiori attori, si stanno facendo sentire in tutto il mondo.

Questa argomentazione è molto diversa dall’impressione più diffusa secondo cui democrazia e capitalismo vanno solitamente di pari passo, e che i liberi mercati sono compagni essenziali delle “democrazie liberali”. In effetti, lo stesso Heilbroner condivideva, almeno parzialmente, questa percezione: «lo stato di esplicita libertà politica che chiamiamo genericamente ‘democrazia’ si è finora manifestato solo in nazioni in cui il capitalismo è la modalità di organizzazione economica… Non è certo che la ricerca del capitale generi una mentalità amante della libertà. È piuttosto che la presenza di un’economia all’interno di un sistema politico fornisce un aiuto inestimabile alla libertà, consentendo ai dissidenti politici di guadagnarsi da vivere senza proibizioni».[19]

La mia argomentazione contraddice anche la percezione secondo cui gli stessi capitalisti preferiscano la democrazia come forma politica. In effetti, recenti dichiarazioni di molti capitalisti di grande successo, soprattutto quelli legati all’economia digitale, lo rendono esplicito. I capitalisti digitali libertari come Peter Thiel sostengono che la “libertà” – di fatto quella del capitale – e la democrazia non sono più compatibili.[20] I grandi capitalisti globali, quelli legati alle nuove società digitali, cercano sempre più di creare nuove giurisdizioni legali che rimuovano tutti gli ostacoli al loro potere e al loro funzionamento, riducendo al contempo i diritti dei lavoratori. Il loro peso politico è rafforzato dagli Stati che cercano di regolamentare e controllare qualsiasi opposizione a tali iniziative.

Non è che non ci sia via d’uscita da questo disordine. Superare il capitalismo è ovviamente l’obiettivo più auspicabile, ma i cambiamenti necessari non possono attendere il raggiungimento di questo requisito fondamentale. Anche all’interno di un quadro ampiamente capitalista, esistono strategie che consentirebbero di allontanarsi da un futuro distopico e di arrestare e/o invertire i processi che ho descritto. Affrontare la disuguaglianza richiede un duplice approccio. Il primo riguarda la pre-distribuzione: garantire che le politiche, le istituzioni e i sistemi normativi non consentano la produzione di redditi e di ricchezza esorbitanti da parte di pochi, negando al contempo salari dignitosi ai lavoratori. Il secondo riguarda la ri-distribuzione: creare sistemi fiscali che costringano le persone estremamente ricche e le grandi aziende a pagare la loro giusta quota, e garantire che queste risorse siano utilizzate per finanziare investimenti in beni pubblici e spese che migliorino i diritti sociali ed economici delle persone. Ad alcuni, queste misure possono sembrare poco incisive, in quanto non superano realmente il capitalismo, ma cercano piuttosto di controllarlo e gestirlo nell’interesse pubblico generale. Tuttavia, esse costituiscono un primo passo fondamentale verso un superamento più completo.

Anche questo richiederebbe profonde trasformazioni nel modo in cui organizziamo le nostre economie. La regolamentazione dei mercati per il bene pubblico sarà fondamentale in questo processo, così come per tutte le trasformazioni economiche: non solo i mercati dei beni e dei servizi, ma anche i mercati finanziari e dei capitali, i mercati del lavoro e i mercati della terra, della natura**** e dell’ambiente. La democratizzazione della conoscenza e un più ampio accesso alle nuove tecnologie, così come il riconoscimento e la diffusione delle conoscenze tradizionali, sono fondamentali. Naturalmente, ciò richiede governi attivi, disposti a rimodellare i mercati e a promuovere visioni a lungo termine per le società, il che a sua volta richiede non solo volontà politica, ma un vero e proprio cambiamento radicale nel modo in cui i governi percepiscono e gestiscono le economie e le società. È improbabile che ciò avvenga senza una significativa pressione pubblica e una mobilitazione di massa.

Note

  • N.d.T. “Rent-mutated capitalism”. Questo termine è utilizzato per descrivere il capitalismo che si è evoluto oltre il tradizionale capitalismo “rent-seeking” o “rentier”. Suggerisce che una nuova forma di capitalismo genera profitti eccessivi non solo attraverso i rendimenti finanziari, ma anche sfruttando il controllo e manipolando leggi, regolamenti e politiche statali a vantaggio del capitale piuttosto che aumentando la capacità produttiva.

** N.d.T. Il “capitalismo rentier” è una tipologia di capitalismo in cui un’ampia parte del reddito-profitto generato prende la forma di reddito da proprietà, come interessi, rendite, dividendi o guadagni in conto capitale.

*** N.d.T. “Regulatory capture” [cattura del regolatore] è un fenomeno per cui un’autorità di regolamentazione finisce per agire nell’interesse delle industrie o dei gruppi che dovrebbe regolare, invece che nell’interesse del pubblico generale.

**** N.d.T. I mercati della natura sono un settore nuovo e in rapida evoluzione, noto anche come mercati del capitale naturale, mercati ambientali o mercati dei servizi ecosistemici.

[1] Katharina Pistor, The Code of Capital: How the Law Creates Wealth and Inequality, Princeton University Press, Princeton, 2019.

[2] Robert Heilbroner, The Nature and Logic of Capitalism, W. W. Norton, New York, 1985, p. 33; ed. italiana, Natura e logica del Capitalismo, Jaka Book, Milano, 2001.

[3] Heilbroner, The Nature and Logic of Capitalism, p. 94.

[4] Michel Aglietta, A Theory of Capitalist Regulation: The US Experience, Verso, Londra, 2015; Robert Boyer, The Regulation School: A Critical Introduction, Columbia University Press, New York, 1990.

[5] Jayati Ghosh, Differential and Absolute Land Rent, Journal of Peasant Studies 13, n. 1, 1985,pp. 67–82.

[6] Yanis Varoufakis, Tecnofeudalesimo: Cosa ha ucciso il capitalismo, La nave di Teseo, Milano, 2023.

[7] Engelbert Stockhammer, Why Have Wage Shares Fallen?: A Panel Analysis of the Determinants of Functional Income Distribution, ILO Working Papers n. 994709133402676, International Labour Office, Geneva, 2013; Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018.

[8] Marc de Jong, Tido Röder, Peter Stumpner e Ilya Zaznov, Working Hard for the Money: The Crunch on Global Economic Profit, McKinsey Quarterly, 21.04.2023.

[9] Jong, Röder, Stumpner e Zaznov, Working Hard for the Money.

[10] David Autor et al., Concentrating on the Fall of the Labor Share, NBER Working Paper no. 23108, National Bureau of Economic Research, Cambridge, Massachusetts, gennaio 2017.

[11] Wolfgang Streeck, Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi, Meltemi, Milano, 2021.

[12] Dean Baker, The Upward Redistribution of Income: Are Rents the Story?, David Gordon Memorial Lecture, Review of Radical Political Economics 48, n. 4, dicembre 2016, pp. 529–43.

[13] Piketty, Il capitale nel XXI secolo.

[14] Matthew Rognlie, Deciphering the Fall and Rise in the Net Capital Share: Accumulation or Scarcity?, Brookings Papers on Economic Activity, primavera 2015, pp. 1–69.

[15] Vedi, per esempio, John Bellamy Foster, Robert W. McChesney e R. Jamil Jonna, Monopoly and Competition in Twenty-First Century Capitalism, Monthly Review 62, n. 11, aprile 2011, pp. 1–39; de Jong, Röder, Stumpner e Zaznov, Working Hard for the Money; e Mario Draghi, Il futuro della competitività europea, Commissione Europea, Bruxelles, 2024.

[16] Matias Covarrubias, Germán Gutiérrez e Thomas Philippon, From Good to Bad Concentration?: US Industries over the Past 30 Years, NBER Macroeconomics Annual 34, 2019, pp. 1–46.

[17] UNCTAD, Market Power and Inequality: The Revenge of the Rentiers, UNCTAD Trade and Development Report 2017, UN Conference on Trade and Development, Ginevra, 2017, Capitolo 6, p. 124.

[18] Vedi, per esempio, Jayati Ghosh, The Unnatural Coupling: Food and Global Finance, Journal of Agrarian Change 10, n. 1, 2010, pp. 72–86; UNCTAD, Food Commodities, Corporate Profiteering and Crises, Trade and Development Report 2023, UNCTAD, Ginevra, 2023; e Jayati Ghosh, Possible Strategies for Enhancing Food Security, G20 Policy Nota n. 7, South Africa Institute for International Affairs, Johannesburg, 2025.

[19] Robert Heilbroner, 21st Century Capitalism, W. W. Norton and Co., New York, 1993, p. 74, trad. italiana, Il capitalismo del XXI secolo, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

[20] Peter Thiel, The Education of a Libertarian, Cato Unbound, 13.04.2009.

Jayati Ghosh
Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org
Fonte: Monthly Review 2025, vol. 77, n. 04 (01.09.2025)

Ultimi articoli