Oggi lo storico quotidiano comunista francese l’Humanité dedica la prima pagina al nostro amato Pier Paolo Pasolini, raccontato per quel che è stato: un comunista eretico. In Italia si tende a rimuovere questo aspetto decisivo della sua biografia sottolineando l’eretico e il corsaro ma depoliticizzandolo proprio in quella maniera qualunquistica che Pasolini aveva sempre odiato. Dagli anni ’90 si è affermata questa lettura decaffeinata di un intellettuale che ha sempre gettato tutto se stesso nella lotta. Questa lettura che riduce Pasolini a un generico anticonformista ha lasciato spazio al tentativo della destra di appropriarsene per negare il valore dell’antifascismo. Abbiamo dedicato la tessera 2025 di Rifondazione Comunista a Pier Paolo Pasolini – con una foto che ci aveva autorizzato a utilizzare il suo amico Mario Dondero – e i suoi versi sullo “stile pura luce” della Resistenza. Un modo simbolico per restituire a Pier Paolo Pasolini quella tessera che perse nel 1949 con l’espulsione dal Pci. Pasolini è stato un comunista e un antifascista che fino all’ultimo, con scritti, discorsi, interviste e il suo film Salò, ha espresso il proprio rifiuto del capitalismo.
A 50 anni dal suo assassinio, il ricordo di Pier Paolo Pasolini, poeta e regista, resta intatto
di Aurélien Soucheyre
Il pensiero e l’opera dell’immenso poeta e regista, omosessuale e comunista, assassinato cinquant’anni fa, restano straordinariamente attuali di fronte alle devastazioni del capitalismo e all’ascesa dei neofascisti.
Lo hanno picchiato a sangue, poi lo hanno finito schiacciandolo con la sua auto. Cinquant’anni fa Pier Paolo Pasolini veniva brutalmente assassinato sulla spiaggia di Ostia, a Roma. Il movente? I mandanti? Gli esecutori? Incredibilmente, la polizia lascia la scena del crimine senza alcuna protezione. Perfida, una parte della stampa afferma che la vittima ha avuto solo ciò che si meritava, avendo cercato in luoghi malfamati i servizi di un giovane prostituto, Giuseppe Pelosi. È proprio lui che una giustizia stranamente selettiva riterrà l’unico colpevole. Da allora, le controinchieste, tra cui quella della giornalista investigativa Simona Zecchi, continuano ad alimentare un “cold case” che tormenta l’Italia e che probabilmente non sarà mai risolto.
«Pasolini era diventato estremamente scomodo. I suoi interventi quotidiani sui giornali erano molto virulenti contro il potere e l’estrema destra, che accusava di complicità nell’attentato di piazza Fontana. Nel libro-inchiesta “Petrolio”, che stava scrivendo al momento della sua morte, affermava di documentare la collusione e la corruzione tra i responsabili politici, la lobby petrolifera e la mafia. Si era attirato i peggiori nemici possibili. La cosa più probabile è che sia caduto in una trappola”, ritiene René de Ceccatty, traduttore e biografo di Pasolini. Resta il fatto che, non potendo fare piena luce sul suo omicidio, commesso nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, un altro argomento rimane più che mai da chiarire, a cinquant’anni di distanza: Pasolini stesso, tanto la sua opera magistrale e proteiforme invita a riflettere sul nostro mondo.
Era allo stesso tempo comunista, omosessuale, cattolico e ateo. Scrittore, regista e drammaturgo. Un intellettuale e poeta impegnato. “Era prima di tutto un poeta. È questo che lega tutta la sua vita e la sua opera. Per lui, la poesia era l’unico vero linguaggio e l’unico modo per cogliere la realtà”, spiega René de Ceccatty. È importante considerare che Pasolini nacque nel 1922, l’anno della marcia fascista su Roma. “Sono nato in un mondo fascista. Non conoscevo il fascismo: non più di quanto un pesce conosca l’acqua in cui vive”, disse. Finché non lesse autori condannati da Mussolini, come Rimbaud. Fu uno shock. Pasolini si sentì immediatamente fuori dalla società, fuori dal suo “realismo”. La sua difesa del friulano, una lingua proscritta dal regime, aggiunge un ulteriore tassello al suo rifiuto della standardizzazione degli esseri, che sarebbe stata la sua bussola per tutta la vita.
“Pasolini è diventato antifascista attraverso la poesia, che lo ha portato a confrontarsi con la realtà. Ma non si è fermato lì. Anche molto tempo dopo la caduta di Mussolini, si è opposto a tutte le forme di rinascita fascista, comprese quelle più moderne”, osserva lo psicoanalista e saggista Roland Gori. Sempre in allerta, Pasolini si rese presto conto che la borghesizzazione capitalista, la società dei consumi e lo spettacolo avrebbero portato a una nuova forma di centralismo fascista. “Non è obsoleto; è ciò che sta accadendo oggi”, aggiunge Gori. “Pasolini non ha vissuto abbastanza per vedere Trump, Musk e Meloni, ma il termine ‘tecnofascismo’ gli appartiene. È stato il primo a usarlo. È uno dei pensatori più importanti per me. Etimologicamente, un martire è qualcuno che porta testimonianza, e questo era il caso di Pasolini”. Ha testimoniato l’esistenza di un nucleo fascista al cuore della modernità. Analizzava come l’invasione delle nuove tecnologie potesse aprire la strada a una nuova forma di totalitarismo consumistico che avrebbe distrutto il linguaggio e standardizzato il pensiero. Il suo testo “La scomparsa delle lucciole”, scritto nel 1975, pochi mesi prima della sua morte, traccia un parallelo folgorante tra l’inquinamento distruttivo della natura e l’estinzione dei valori cardinali del progresso, attraverso una rivoluzione antropologica che considerava ben più pericolosa del fascismo originario.
Antifascista, Pasolini divenne anche comunista dopo aver incontrato i braccianti friulani in rivolta contro il loro datore di lavoro. “Ancora più di Marx, le idee di Gramsci mi conquistarono immediatamente”, dichiarò. L’assassinio del fratello nel 1945, un comunista impegnato in lotta per l’indipendenza del Friuli, da parte di altri comunisti che cercavano di annettere la regione alla Jugoslavia, non lo allontanò dal marxismo. Né lo allontanò la sua espulsione dal Partito Comunista Italiano nel 1949 per “atti osceni”, “indegnità morale” e “vizio tipicamente borghese”, quando Pasolini riconobbe apertamente la sua omosessualità. “Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel vero senso della parola”, affermò il poeta, che non sarebbe mai diventato un artista “ufficiale” ma non avrebbe mai reciso i legami, cercando sempre di mantenere il dialogo e di provocare il dibattito. «Molto più della classe operaia impegnata nella lotta di classe, ciò che interessava fondamentalmente Pasolini era soprattutto il sottoproletariato, cioè i proletari che non avevano ancora coscienza di classe. Erano soprattutto loro che voleva risvegliare, in particolare attraverso l’arte», osserva René de Ceccatty.
Nel 1968, alla Mostra del Cinema di Venezia, presentò “Teorema”. Nonostante avesse vinto il premio dell’International Catholic Film Office, il film suscitò scandalo alla sua uscita.
Ed è all’inizio degli anni Sessanta, con il suo arrivo a Roma, che Pasolini diventa un artista completo: alla poesia si aggiunge l’attività di sceneggiatore, scrittore, regista e drammaturgo. Svolge un’attività artistica e intellettuale sorprendente e senza eguali. Si cimenta con il documentario (“La rabbia”, “Inchiesta sulla sessualità”), realizza mediometraggi comici e lungometraggi mozzafiato, concentrandosi sui ragazzi (“Accattone”, nel 1962, “Mamma Roma”, nel 1966), sull’Antichità (“Edipo Re”, nel 1967, “Medea”, nel 1969), sulla famiglia borghese (“Teorema”, nel 1968, “Porcile”, nel 1969) o persino sulla figura di Cristo, con “Il Vangelo secondo Matteo” (1964). “Cristo è un sottoproletario che va con il sottoproletariato”, insiste l’uomo che crede che Gesù debba essere restituito al popolo e che ribadisce, riguardo all’eredità cristiana, che “sarebbe una follia lasciare il monopolio del Bene ai preti” . “Il Gesù di Pasolini è quello della rabbia contro i cambiavalute nel Tempio; è interpretato da un sindacalista spagnolo. Gesù è risolutamente ritratto dalla parte degli oppressi; è amore e rabbia”, osserva Julie Paquette, professoressa di filosofia alla Saint Paul University di Ottawa.
«Pasolini è ateo, e il suo Cristo non è quindi il figlio di Dio: è una figura terrena, un rivoluzionario», osserva Anne-Violaine Houcke, docente di cinema e studi audiovisivi all’Università Paris Nanterre. «Una sorta di intellettuale marxista che getta il suo corpo nella lotta. Pasolini disperava della frattura tra, da un lato, gli intellettuali comunisti, che criticava per un razionalismo incapace di abbracciare l’irrazionale, e dall’altro, il mondo cattolico, che riteneva fallimentare nella sua missione primaria di giustizia sociale. Questa frattura si esprime in tutta la sua rubrica sul quotidiano del Partito Comunista “Vie Nuove” tra il 1960 e il 1965, dove si impegnava in un dialogo con i lettori. Pasolini chiarisce molto bene che il marxista, anche se basa tutte le sue azioni su una fede il cui esito è la vittoria della lotta dei poveri contro i ricchi, è un uomo religioso». Il suo rapporto con Cristo, come il suo rapporto con Marx, ha quindi qualcosa di eretico.
Ben presto, il cinema di Pasolini si distinse per essere allo stesso tempo rustico, sperimentale e sofisticato. Questo non gli impedì, con la sua “Trilogia della vita” – “Il Decameron” (1971), “I racconti di Canterbury” (1972) e “Le mille e una notte” (1974) – di raggiungere il primo posto al botteghino italiano, prima di sfidare il voyeurismo del pubblico con “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975). “Il teatro facile è oggettivamente borghese, il teatro difficile è per l’élite colta. Il teatro molto difficile è l’unico teatro democratico”, affermò. “Questo apparente elitarismo ha in realtà un orizzonte fondamentalmente democratico”, concorda Anne-Violaine Houcke, che aggiunge: “La pedagogia di Pasolini cerca di fare della complessità un luogo per risvegliare il pensiero critico”.
Disgregatore dello status quo, informatore pubblico, Pasolini cercava di scuotere le cose affinché ogni essere umano potesse essere parte attiva della propria vita, all’interno di una polifonia collettiva. “Se c’è provocazione, il suo scopo è riaccendere il potere della contraddizione. La sua provocazione ha una vocazione radicalmente democratica in quanto ci impedisce di diventare compiacenti. Pasolini invocava la necessità di provocare uno stato di emergenza poetica contro la ‘normalità’. La provocazione diventa talvolta, in questo senso, una sorta di necessità di fronte a nuove forme di fascismo”, spiega Julie Paquette. “Tutto nella sua opera è ‘discorso pubblico’. Uno dei suoi modelli è Socrate, il sublime folle, come lo chiama lui, che si reca instancabilmente nella periferia di Atene per mettere in discussione, per praticare la sua arte della maieutica. È il tafano della città”, osserva Anne-Violaine Houcke.
E Pasolini pagò un prezzo altissimo. Passò senza sosta da un’opera a un processo, da un processo a un’altra opera. Il critico Franco Grattarola ritiene che sia stato vittima di un “linciaggio morale durato venticinque anni” per mano di giudici, media e destra. In totale, furono avviati 33 procedimenti legali contro le sue creazioni. Lui stesso si lamentava di essere stato così spesso presentato come un ‘”antitesi morale, un reietto” da coloro che cercavano di ridurlo a quella che lui definiva la sua “omofilia”.
Questo a volte lo portava a prevedere il peggio. Si immaginava “picchiato a morte con i bastoni “. Scrisse: “Arrivo a Ostia sotto una tempesta blu come la morte”; “Sono come un gatto bruciato vivo, schiacciato sotto le ruote di un grosso camion “. In un’intervista del giorno prima del suo assassinio, dichiarò: “Tutti sanno che pago le mie esperienze con la mia stessa persona! Non sapete nemmeno chi, in questo momento, potrebbe pensare di uccidermi… Siamo tutti in pericolo”. Tanto che alcuni, sottolineando il suo fascino per i martiri o cedendo al romanticismo fuorviante di una vita presumibilmente conclusa magnificamente da una morte violenta, lo accusarono o immaginarono che si fosse sacrificato. Come se fosse un colpo di grazia alla società italiana. “Non ci credo per un secondo. Aveva mille progetti. Possedeva una vitalità creativa molto forte”. “Non è affatto un oracolo suicida”, ribatte René de Ceccatty. «Protesto contro tutto ciò che relativizza un omicidio abominevole», risponde Roland Gori .
Sebbene Pasolini non avesse carenza di nemici tra l’élite, solo una persona pagò per il suo assassinio: un prostituto diciassettenne condannato nel 1976 a nove anni di carcere.
«La libertà», scrisse Pasolini, «esiste solo ‘in prima linea’. Bisogna ‘sforzarsi di non andare troppo avanti, di interrompere l’impeto vittorioso verso il martirio; e tornare continuamente in prima linea’. Considerare il suo omicidio come qualcosa di simile al suicidio, a un sacrificio, non è solo abietto, ma profondamente contraddittorio, contrario alla sua stessa opera», afferma Anne-Violaine Houcke. «Ciò che mi interessa non è tanto la crudeltà della vita che produce crimini, quanto il fatto che questi crimini vengano perpetrati perché non si cerca nemmeno di comprendere la storia, la vita, la realtà», disse ancora Pasolini. Questa è la prova del suo desiderio di risvegliare continuamente le coscienze, in particolare di fronte all’estrema destra che, a cinquant’anni dalla sua morte, sta tentando di cooptarlo – come ha fatto con Gramsci – nonostante la perdurante attualità della sua opera e del suo pensiero.





